Jugo-centrismo calcistico

Posted By on Nov 16, 2020 | 0 comments


di Daniele Izzo

 

Il filo rosso della storia del calcio. Nascosto tra le pieghe di un campo di provincia, avvolto alla rete della porta in uno stadio gremito, è inconsapevole collegamento ideologico tra uomini, è legame inapparente, intangibile. Come quello che lega Aranycsapat, ‘Futbal Bailado’ d’Europa, ‘Totaalvoetbal’, ‘Gioco Corto’ e ‘Tiki Taka’. Un’idea calcistica nata nell’est europeo agli albori degli anni ’50 e arrivata ai giorni nostri dopo aver cambiato nome, interpretazione e ambito d’applicazione in Jugoslavia, Italia e Olanda.

In pochi sanno che a sciogliere il nodo del filo rosso sono stati gli jugoslavi, fondamentale tramite per far sì che il rivoluzionario gioco di Gustav Sebes arrivasse a dar vita al ‘Totaalvoetbal’ olandese. Il calcio come specchio di un paese, anche e soprattutto in Jugoslavia. A maggior ragione in Jugoslavia. Correvano, infatti, gli anni ’60 quando nei Balcani si aprì una fase di riforme, costituzionali, economiche e finanziarie che miravano a favorire l’inserimento della federazione slava nel mondo occidentale. Le scienze politiche e, in special modo, la sociologia entrarono d’impeto nelle Università, finallora centri di resistenza di un comunismo puro: fu una ventata d’aria fresca che si sommò a un pensiero già ben diffuso nel tessuto sociale del paese. La finestra sull’occidente era stata aperta. La musica rock dilagò nel paese sulle ali di una ‘Beatles-mania’ che portò al sorgere di gruppi, denominati ‘VIS’, come ‘Silvete’ e ‘Roboti’. Il calcio, già parzialmente ispirato alla ‘Grande Ungheria’, si aprì alla danza pallonara, al gesto tecnico, alla ricerca dell’estetismo, andando a configurare una scuola autoctona, dalla composizione multiforme, espressione di un malinconico estro mitteleuropeo dall’anima dissipatrice.

Da questo connubio prese forma la Nazionale jugoslava che si presentò ai Campionati Europei italiani del 1968. Una selezione che fu il prodotto di quattro squadre: il Vojvodina campione jugoslavo nel ’66, il Sarajevo nel ’67, il Partizan Belgrado che accarezzò la Coppa Campioni del ’66, persa in finale contro il Real Madrid, e la Crzvena Zvezda tricampione di Jugoslavia dal ’68 al ’70 e vincitrice della Mitropa Cup. Alla guida della squadra c’era Rajko Mitic, un ex centrocampista e giornalista sportivo con in testa una visione differente del calcio, fondata sull’elegante ‘futbol bailado’ jugoslavo ma ispirata dai principi tattici della Grande Ungheria. Per tutto l’Europeo, infatti, la Jugoslavia si schierò in campo con un 3-2-3-2 del tutto simile a quello magiaro di Sebes. L’intercambiabilità dei ruoli e l’utilizzo di un centravanti arretrato, Hidegkuti per l’Ungheria, Dzajic per la Jugoslavia, rappresentarono il filo rosso che porterà prima all’Olanda di Cruijff e del ‘Calcio Totale’ e poi al ‘Tiki Taka’ spagnolo.

Pantelic e compagni arrivarono fino alla finale, persa con l’Italia alla ripetizione, esprimendo un calcio offensivo, palla a terra, dalle trame ipnotiche e fulminee verticalizzazioni, che svelava per la prima volta l’utilizzo del taglio e della sovrapposizione. Dzajic, un solista inquadrato in un’orchestra dai ritmi compassati e dall’insana abitudine allo sperpero, era il fulcro tecnico e tattico della squadra: mancino naturale, si abbassava a legare il gioco per favorire gli inserimenti di Musemic e Petkovic nello spazio. Fu proprio il suo peculiare posizionamento in campo a ispirare i movimenti offensivi dell’Olanda di Michels, che, al contrario di quelli difensivi, invenzione rivoluzionaria dei tulipani, ricalcavano in maniera presso che perfetta quelli voluti da Mitic.

È così che al filo rosso che lega Hidegkuti e Dzajic possiamo aggiungere il nome di Johan Cruijff. Ed è così, oltremodo, che all’Aranycsapat e all’autoctona scuola jugoslava possiamo collegare il ‘Totaalvoetbal’. La successiva correlazione è, ora, facilmente intuibile: ciò che noi oggi chiamiamo ‘Falso Nueve’, ciò che noi oggi chiamiamo ‘Tiki Taka’, altro non sono che la ri-emersione di quel filo rosso che ha collegato Hidekguti a Cruijff e la scuola ungherese a quella spagnola, con la Jugoslavia ad assolvere la storica funzione di riassuntivo collegamento tra mondi e culture differenti. Segno reale e oggettivo del passaggio di testimone fu la contemporanea presenza nella Liga, a metà degli anni’70, di Michels, Neeskens e Cruijff al Barcellona, in rappresentanza della scuola olandese e Boskov e Miljanic, seduti rispettivamente sulle panchine di Real Saragozza e Real Madrid, per quella jugoslava. A chiusura del cerchio calzano a pennello le parole di Vicente Del Bosque, ultimo tramite espressivo della scuola del falso 9 e del ‘tiki taka’, contenute nel libro ‘Pallone entra quando Dio vuole’: ‘Vujadin Boskov (allenatore del Vojvodina nel ’66) e Miljanic (allenatore della Stella Rossa tri-campione) sono gli uomini che maggiormente hanno influenzato il mio percorso da allenatore’.

In tutta questa storia, fatta di rivoluzionamenti tattici, leggende e visionari allenatori, si inserisce un sottile capello rosso, distaccatosi dal filo originale. Un pensiero calcistico, nato in una provincia umbra agli albori degli anni ’70, che prese il nome di ‘Gioco Corto’. Profeta in patria ne fu Corrado Viciani che, dopo aver studiato il calcio europeo osservandone gli sviluppi, rivoluzionò tattiche e gioco della Ternana portandola dalla C alla Serie A. Il tecnico toscano incentrò lo sviluppo della manovra in maniera semplicissima: ogni giocatore doveva passare la palla al compagno più vicino. Non avendo dei fenomeni – ‘Avevo asini come giocatori’: disse all’epoca Viciani – sopperì a tale mancanza attraverso l’intercambiabilità dei ruoli e il possesso palla: due nozioni che già abbiamo ritrovato nelle righe precedenti.

Viciani, tuttavia, non fu il solo a ispirarsi al ‘Calcio Totale’. Dopo un terzo posto ottenuto nella stagione 1972/73, Luis Vinicio porta a Napoli la ‘zona’: non più un libero staccato dietro tre marcatori, ma quattro uomini che difendono in linea. L’ormai risaputa ricerca del possesso palla e la duttilità dell’organico partenopeo diedero poi i suoi frutti: il Napoli di Vinicio diventa una macchina fluida, stretta in 30 metri e con una spiccata propensione offensiva. Peccato che, in linea con una delle più classiche regole non scritte del gioco, Josè Altafini metta la pietra tombale sulle velleità di scudetto del Napoli, consegnandolo ancora una volta alla Juventus.

Fu così che il ‘Gioco Corto’ della Ternana di Viciani e la ripresa della zona da parte del Napoli di Vinicio, inserirono il capello dell’idee di provincia nel portante filo rosso della storia del calcio.

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