Gli eretici degli anni ’80

Posted By on Nov 24, 2020 | 0 comments


Matteo Quaglini

Due squadre rivoluzionarie. Il Milan di Sacchi, la squadra dell’immaginazione al potere dal tratto anticonformista olandese e gli Stati Uniti di Doug Beal, del mito del non arrendersi mai. Due formazioni rovesciate eppure identiche in molti aspetti. Rovesciate perché il Milan, nel calcio, riprese il concetto di gioco caro ai sovietici nella pallavolo: si gioca con l’universalità dei ruoli. Tutti difendono e tutti attaccano, come da mantra d’oro dei campionissimi della Steppa. Gli Usa ripresero, invece, la specializzazione dei ruoli di matrice inglese e italiana. Il loro mondo alla rovescia consisteva nel giocare rielaborando il sistema degli avversari, dandogli un’interpretazione tecnica ardita e fuori dai canoni tradizionali.

Il Milan di Sacchi è stato un grande generatore di fantasia, di classe e di idee. Gli americani guidati da un guru che sembrava uscito da Easy rider e che della pallavolo era un professore, hanno sviluppato sul parquet il gioco iper specializzato realizzato per sconfiggere l’ideologia dell’universalità, cara ai dioscuri sovietici.

Il primo carattere che ha accumunato il Milan e gli Usa è stato il saper costruire due squadre dalla filosofia eretica. Il secondo aver saputo imporre, nel calcio italiano e nella pallavolo internazionale,  una visione del gioco esterna all’ortodossia. Il Milan l’ha fatto introducendo, nel campionato della marcatura a uomo e del grande contropiede, la zona-pressing olandese dell’Ajax cruffiano e del Feyenoord del gotico Happel.

Gli Stati Uniti hanno realizzato la loro suggestione, ribaltando il concetto pallavolistico: non più l’universalità dei ruoli di scuola russa dove tutti sanno ricevere e attaccare, ma la specializzazione dei ruoli e dei compiti dove ciascuno è un ingranaggio della squadra ed esegue il suo colpo migliore. Una serie di specializzazioni che diventano linea meccanica complessiva, dov’è il gioco a imperare non i giocatori: come nell’eretico credo di Sacchi. Fordismo e socialismo dello sport in cui il talento è messo nella meccanica di gruppo. Mito dell’esaltazione dell’addestramento e della tattica.

Tutto questo sono stati il Milan e gli Usa della pallavolo quasi nello stesso tempo, la metà degli anni ’80, rappresentanti di uno degli ultimi scontri ideologici nello sport: i conservatori di alto livello difensori dei canoni tradizionali contro gli eretici portatori del nuovo, gli studiosi della scienza tattica contro i costruttori di squadre. Uno scontro bellissimo e caratteristico di un’idea di sport non monocorde, non globale, sempre tesa a duellare tra mondi diversi.

Il modo di giocare del Milan e degli Usa è stato lo stesso. Fondato sull’aggressione difensiva, sul ritmo alto, sul concetto di giocatori attivi e non passivi, sull’attacco della palla, sull’innovazione tattica. Un esempio per tutti: l’idea della difesa. Un sistema per Sacchi e Beal dove non aspettare la mossa dell’avversario ma prevenirla, inibirla, aggredirla. Da qui l’aggressione con due, tre o tutti i giocatori sul portatore di palla nella metà campo avversaria con il fuorigioco pronto ad avere la stessa funzione della tela del ragno, imprigionare i centravanti avversari.

Quasi identica all’idea di difesa aggressiva a tutto campo degli Usa dove nessun pallone è impossibile da difendere ed anzi il primo passo verso il contrattacco, simulacro della filosofia delle ripartenze corte di Ancelotti, Gullit e van Basten.

Se il gioco ha li stessi principi è perché Sacchi e Doug Beal si somigliano. Due studiosi, due perfezionisti che hanno fatto della ripetizione ossessiva la loro forma di insegnamento, due allenatori che hanno pensato nei minimi dettagli ai singoli movimenti e ai loro sincronismi. I tempi di esecuzione sia nel Milan che tra le fila degli americani hanno sempre incontrato il punto perfetto tra l’inizio dell’azione data dal collettivo e la sua fine, magistralmente affidata al gesto tecnico individuale di Kiraly o van Basten, di Timmons o Donadoni, di Baresi o Jeff Stork.

Il tempo è stato un elemento comune per le squadre che dell’eresia sono state il Santo Graal dello sport. Quattro anni per entrambe, come se per fare la rivoluzione servisse solo quel tempo e non un minuto di più. Un’idea molto napoleonica che riguardò anche gli allenatori che non hanno più ritrovato le visioni dei giorni magici, una volta tornati. Sia Arrigo Sacchi che Doug Beal allenarono di nuovo, nel 1997, la storia che avevano forgiato ed entrambi non seppero ricostruire un nuovo sogno. Chissà forse perché la grande idea deve rimanere unica, senza repliche.

Un sogno che accomuna due superbe squadre anche nella mitologia di rivali e critici. Chi impone un’idea nuova si scontra con i grandi avversari dell’ordine costituito. E’ la conferma che l’idea vale.  Per il Milan gli avversari furono Maradona e il Real Madrid, per gli Usa la grande Urss di Savin, Sapega e Zaytsev. E lo stesso valse per i grandi critici, Brera e Platonov. Se il grande giornalista sportivo italiano e uno dei più grandi allenatori di pallavolo di sempre avevano da ridire sul futuro disegnato dal Milan e degli Usa, questo voleva dire che quel futuro era destinato alla storia. E alla leggenda.

 

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